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La Mandragora, erba magica di Antonio Vaccari
Eleusis

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La Mandragora, erba magica
Antonio Vaccari

Originalmente pubblicato in Fitoterapia, vol. 26, 1955, pp. 553-559


La Mandragora (Atropa Mandragora L.), Mandragora, (Ital. Spagn.), Main de gloire, Mandeglorie (Francese),
Alraùnwurzel (Ted.) (1), Mandrake (Inglese), Jabora, Yabrohach (Arab.) è una pianta della famiglia delle Solanacee contenente principi acri e tossici che la fanno classificare fra le velenose.

Nota fino da tempi antichissimi, su di essa, più che su di ogni altro vegetale, si è sbizzarrita la fantasia popolare creandole intorno il mistero e la superstizione (2).

La pianta, propria della regione mediterranea, cresce nell’Europa meridionale, in Grecia, nell’Isola dì Candia, nella Bassa Italia, in Sicilia ecc.

Il Fiori, nella sua Flora Italiana, ne considera due specie: una con radice grossa, carnosa, bianca e corolla bianco-verdognola, che fiorisce a primavera (M. vernalis Bert. M. officinarum L. = M. officinaLis Mill.) e corrisponde alla Mandragora maschio degli antichi (3); e una con corolla violacea e radice più piccola e nerastra, che fiorisce in autunno (M. autumnalis Berth.) che corrisponde alla Mandragora femmina degli antichi (4). Le due specie differenziano fra loro ben poco per i caratteri morfologici e le proprietà sono uguali. In generale, parlando di Mandragora, ci si riferisce alla prima specie: il maschio.

Targioni-Tozzetti (Corso di Bot. med. farm., Firenze, 1841) distingue ancora la M. maschio (M. vernalis Bert.) dalla femmina (M. officinarum L.). Come si vede, la sinonimia è molto confusa per i diversi nomi dati alla pianta dai vari AA. Così fu detta da Dioscoride Tridacia, per l’assomiglianza delle sue foglie a quelle della lattuga e da altri "Dircea" o "Circea", per la vantata azione afrodisiaca, Norion o Morion per le sue proprietà soporifiche (5).

Teofrasto descrive, sotto il nome di Mandragora, una pianta che non sembra sia la Mandragora descritta da Dioscoride. Infatti quest’ultima è acaule, mentre Teofrasto accenna ad una pianta caulescente, del tipo della Ferula, con frutti rassomiglianti ad acini d’uva, mentre quella di Dioscoride presenta delle bacche, dette anche pomi, più o meno grosse e piene di semi. Sembra quindi che Teofrasto abbia descritto la affine Atropa Belladonna, chimandola Mandragoila.

In ogni modo, come si e già detto trattando di Mandragora, si intende sempre quella di Dioscoride.

Il nome di Mandragora sembra dovuto al fatto che essa si trova spesso in vicinanza dei luoghi di rifugio o di riposo del gregge:

"Speluncarum stabulorumque honos. Quod ad mandras pecorum aliisque speluncas provenit" in quanto preferisce terreni opimi (6).

Altri (Bodeo Stapel) pensa che possa derivare dal germanico Man (uomo) e Tragen (portare) perché le grosse radici, spesso biforcate e accavallate, hanno una certa rassomiglianza con coscie umane od uomini senza braccia:

"Radix subinde bifida, aut triftda, crura bina et clunes quasi disparata ostentant".

Per tal ragione Pitagora la chiamò antropomorfon. Anche Columella (in Hort: citato da Bodeo Stapel) accenna alla forma antropomorfa delle radici di Mandragora:

"Quamvis semi hominis vesano gramine foeta

Madragorae pariat flores, moestamque cicutam"

Come tutte le piante dotate di una certa attività, la Mandragora fu, fino dal tempo antico, sperimentata e vantata nelle più svariate malattie, ma la sua applicazione più utile era contro le malattie oculari:

Mandragoras Epiphoris, quod certum est, medetur.... nam succus multis oculorum medicamentis miscetur" (Camers, Index Plin, Venezia, 1525). Veniva poi usata esternamente come antiflogistico ed analgesico, applicandone le foglie su parti infiammate o dolorose.

Malgrado la riconosciuta tossicità, essa veniva però usata anche internamente. Il succo della corteccia della radice (che è la parte più attiva) è un violento purgante, drastico, come quello dell’Elleboro ma più forte e una dose troppo elevata può causare esito letale! (Plinio Castore Durante, ecc.).

Infusa nel vino la corteccia della radice ha effetto ipnotico (7) e "viene data a coloro ai quali si deve segare qualche membro senza dolore o si debbono fare cauterizzazioni (Castore Durante, Mattioli, Dodoneo).

Pare che si facesse un certo uso delle bevande contenenti succo o infuso di Mandragora tanto che, se un individuo si mostrava intontito, o sonnolento, gli si domandava se avesse bevuto la Mandragora:

L’imperatore Giuliano, in una lettera a Callistene, esclama: "Non sembra che abbiano bervuto molta mandragora? Ai bevitori di Mandragora accenna pure Demostene nella sua Quarta Filippica e Luciano (in Timone) parlando dei mercanti, che sonnecchiano nei bazar senza curarsi degli affari:

"Quod modo, Jupiter, tamquam sub Mandragora dormis, qui neque prejeran-tes audis, neque juris violatoris advertis?" (Bod. Stap.).

Giulio Fiorentino riferisce che Annibale si servì dell’azione ipnotica della Mandragora per vincere i ribelli Africani:

"Hannibal missus a Carthaginiensibus adversus rebellantes Aphros, cum sciret gentem esse avida vini, magnum ejus modum mandragoras permiscuit, cujus inter venenum et soporem media vis est. Tunc, proelio laevi commisso, ex industria cessit, nocte deinde intempesta, relictis intra castra quibusdam sarcinis et omni vino infecto, fugam simulavit; quumque Barbari occupatis castris, in gaudium effusi, medicaturn merum avide hausissent, ac in defunctorum modo strati jacerent, reversus, coepit eos ac trucidavit in copia".

Tutta la pianta esala odore viroso particolare e i frutti, i così detti pomi, giunti a maturità mandano odore di meloni guasti.

Si diceva anche che l’odorare o respirare tali effluvii poteva fare ammutolire o diventare pazzi. Tali effluvii potevano anche aderire e comunicarsi alle cose vicine; Plutarco (Libr. de audiendis Poetis) così ne fa cenno:

"Quemadmodum autem Mandragora juxta vites nascens, suamque in vinum diffundet efficit ut suavius dormant qui id biberint".

Quanto alla tossicità dei frutti i pareri sono discordi. Alcuni affermano che sono immangiabili, altri invece che sono innocui (Dodoneo e Jo. Linceo Romano) e per provarlo il Prof. Jo. Fabri, dell’ateneo Romano, ne fece l’esperimento su di se stesso:

"Coram suis auditoribus magnum Pomum una cum seminibus absumpsit, sine ullo, vel somni vel alterius mali, signo minimo; et, ut experimentum esset certius, jejunus usque ad prandium, per aliquot nempe horas, permansit; et vino, ne vis pharmaci debilitaretur, abstinuit" (Morandi Hist. Bot. Pract., p. 109) (8).

Del resto, a provare che i frutti di Mandragora potessero essere impunemente mangiati e di più avessero una certa proprietà propizia alla fecondazione, Bodeo Stapel cita una lettera di Langius che si riferisce alla Bibbia (9):

"Rachel venusta sed sterilis, Jacobi Patriarchae uxor; quamvis foecunditatern a Deo precario obtinuerat, non tamen prius concipere poterat quam Poma Mandragorae, a sorore Lya accepta, gustasset, Quorum foecundas vires (aggiunge Langius Epist. Lib.2) pleraeque Bononiensium uxores, ‘me consule’ expertae sunt"!

E poiché il pomo mangiato da Rachele è chiamato in ebraico dudaim, secondo Stapel, si dovrebbe concludere che esso sia uguale al frutto di Mandragora che Langio somministrò alle Bolognesi! Tuttavia non è certo che il termine dudaim sia esclusivo per il pomo di Mandragora, ma potrebbe significare pomo in genere o anche cetriolo o qualche cosa di simile (10).

L’uso a scopo medico della Mandragora sempre circuito di mistero, come si addice a pianta ritenuta magica, è continuato per tutto il medioevo e quasi fino ai giorni nostri.

La pianta è raffigurata e descritta non solo in tutti gli antichi testi ma anche nell’Herbario Novo di Castore Durante il quale ne ricapitola le proprietà nei seguenti versi latini:

"Conciliat somnum, sedat pariterque dolores

Mandragoras, et mollit Ebur; tuberculas, strumas

Discutit, et collecta; Iuvat serpentis ad ictus,

Expellit partus, et menstrua; detrahit atram

Tum vomitu bilem, et pituitam; inducit et inde

Humorem, ac frigus; largo demittit ad orcum

Et potu".

Oltre alle già accennate proprietà, pare quindi che, con una bollitura prolungata avesse la capacità di rammollire l’avorio, cioè di renderlo molle e pastaceo, sì da poterlo modellare come creta.

Anche nel secolo scorso si trova la Mandragora citata in qualche trattato di Materia medica ma, benché le sue foglie siano uno degli ingredienti dell’unguento populneo, (Morandi l.c.), essa cadde nell’oblio che il Sangiorgio (Storia delle piante medicate, Milano 1809) così giustifica:

"Nella colta Europa non si usa più e si lascia ai Russi la libertà di adoperarla nei tumori, parotiti, scrofole, bubboni venerei, provenienti da soppressa gonorrea (sic) nei quali si dice utile".

Essa non figura nella vigente Farmacopea Italiana.

Le moderne ricerche hanno potuto isolare dalle radici di Mandragora un alcaloide: la mandragorina (11) e la josciamina (che forma sali cristallizzati: solfato e cloridrato) solubili in acqua, con azione midriatica ed antispasmodica analoga, ma meno efficace, di quella dell’Atropina, di cui potrebbe forse essere un succedaneo (12).

Della fama di pianta magica che, fino dai primordi, ha accompagnato la Mandragora, fecero speculazione nei secoli passati i ciarlatani, fondandosi sul citato aspetto delle radici raffiguranti in certi casi arti umani.

La superstizione attribuiva alle radici una vita animale! Si credeva che nascessero dalle urine di ladri impiccati (Bodeo Stape1. l.c. pag. 584) (fortunati quelli che la potevano raccogliere sotto i patiboli!) e quindi fosse assai pericoloso scavarle a meno di non turarsi bene le orecchie, per non sentire le loro lamentevoli grida e il loro pianto che poteva far divenire mutoli o matti! Né ciò era bastante, poiché chi strappava la pianta senza le prudenti precauzioni ed i forti scongiuri, doveva in breve inesorabilmente morire.

Webster (Internat. Diction. of Eng. Lang, pag. 890) riporta in proposito alcuni versi di Shakespeare:

"And shrieks like Mandrakes torn out of the earth

That living Mortals hearing them, run mad!".

Bodeo Stapel dice di avere egli stesso nella sua infanzia udito raccontare simili favole!

Le speciali precauzioni da osservarsi nello scavare le radici di Mandragora sono ricordate anche da Camers (1. c. lib. 25, cap. XIII):

"Cavent effossuri contrarium ventum et tribus circulis ante gladio circumscribunt. Posteo fodiunt ad Occasum spectantes" e vengono ripetute da Bodeo Stapel (1. c.):

"Mandragoram quoque ense ter circumscribere jubent et alterum succidere ad Occasum spectando. Alterum circumsaltare plurimaque de rea venerea dicere".

Come si vede, oltre alle precauzioni materiali, si dovevano aggiungere maledizioni, esecrazioni e turpiloquio!

Giuseppe Flavio (De bello Judaico lib. VII cap. XXV) parla di una pianta che chiama Baaras, per raccogliere le cui radici occorrono analoghe misure precauzionali: "Si deve spargere intorno urina muliebre, o mestruo, e afferrarle poi con mano pendente, pena la vita, oppure si deve scavare fino a lasciar loro intorno poca terra e legarvi poi sopra un cane. Il cane muore e allora le radici possono essere raccolte senza pericolo" (13).

Analogo racconto si trova nel De viribus herbarum di Apuleio Platonico (1328).

Tutte queste pratiche effettuate, sia in buona fede per ignoranza, o astutamente per ciurmeria, servivano ad esaltare la fama magica della Mandragora onde diffondere nel volgo la credenza che quelle radici, foggiate come amuleti, ad immagine umana di ambo i sessi, avessero potere soprannaturale.

Alle donnette si faceva credere che esse potessero vincere la sterilità, procurare a volontà figli maschi o femmine e favorire parti felici (14).

Le radici, grosse e carnose, venivano a tale scopo modellate e abilmente intagliate con coltelli, foggiandole in modo da rappresentare un tronco con due gambe, portante gli organi generativi esterni dei due sessi, fornendolo anche di peli e barbe. Ciò si otteneva impiantando nelle radici fresche granelli di miglio o orzo nei punti convenienti. Dopo una ventina di giorni comparivano germogli o radicette, che simulavano i peli (Castor Durante 1.c.) (15). Il Loudon (Encyclop. of Plants, Londra 1841) afferma di avere egli stesso visto tali pupazzi esposti dai ciarlatani in porti di città marittime della Francia (16).

Alle radici di Mandragora venivano non di rado sostituite, allo stesso scopo, quelle della Bryonia alba L.: cucurbitacea europea, fornita anch’essa di grosse radici bianche, carnose, che però sono meno resistenti e di minore durata di quelle di Mandragora. Si scava la terra senza toccare le fibre inferiori delle radici alle quali si assicura con fil di ferro uno stampo della forma che si desidera, poi si ricopre di terra. In una estate la radice assume la forma dello stampo (Loudon l.c.). Anche qui la peluria veniva simulata coll’impianto di granelli di miglio o di orzo come sopra si è detto.

Naturalmente oggidì simili ciarlatanerie, che potevano sussistere solo in un ambiente di grande ignoranza e credulità, sono del tutto scomparse.

Anche la Bryonia è pianta relativamente tossica e il succo della sua radice è un violento purgante drastico.

Non è facile trovare presso gli Erboristi italiani le radici di Mandragora, sebbene le comprendano nei loro listini. Di solito essi offrono invece radici di Scopolia carniolica Jacq., che ha proprietà analoghe alla Belladonna e contiene josciamina, joscina, scopolamina, atropina.

E’ più facile trovare la Mandragora da noi nelle provincie di Grosseto, Chieti, Matera, Brindisi, Caltanisetta (dove è detta Minnulagrò), Catania (Mannaraona e Mandulagròna), Palermo, Siracusa, Ragusa (Pàmpina di Aùna (Modica]).

Note

(1) Le sacerdotesse dell’antica Germania modellavano queste radici a foggia di idoletti – specie di Dei Lari – chiamati alruni, che erano Consultati come oracoli. (N. d. R.)

(2) La Mandragola è il titolo di una Commedia di N. Macchiavelli. Ora Carlo Goldoni, nelle sue Memorie (Piacenza, Del Maino, 1828 T. I. pag. 57), racconta che, ancora giovinetto, residendo a Chioggia, per scacciare la noia, chiese ad un amico di casa, il Canonico Gennari, qualche libro, possibilmente di genere drammatico, ed ebbe da lui una vecchia Commedia che il Canonico, senza leggerla, aveva preso dalla camera di un suo fratello! Era la Mandragola del Macchiavelli! Non l’aveva mai letta, ma ne aveva sentito parlare e sapeva che non era una Commedia delle più oneste! La lesse, la rilesse, ma un giorno, sorpreso dal Padre durante tale lettura, si buscò una solenne sgridata mentre il Padre, Dr. Giulio, si disgustava coll’amico Canonico reo di sbadataggine!!!

(3) Mandragara mas Dod. 1616 I.B. Ray. Hist. (1686).- Mandragora mas vulgatior Park. (1640). Mandragora fructu rotundo C. B. Ptt. Tournef. (1689). - Mandragoras albus, seu masculus Cord. Hist. (1561).

(4) Mandragora foemina Dod. Ger. I.B. Ray. Hist. Mandragora fiore subcoeruleo purpurascente C.B. Pit. Tournef. Mandragoras foemineus Park. I vecchi autori distinguevano la Mandragora anche in bianca (maschio) e nera (femmina). Fu il Bertoloni (1853) che distinse le due specie in vernalis e. autumnatis (N. d. R.).

(5) Tridacia,, da "tridas", lattuga (la M. nera o femmina) - Cirrcea, dalla mitologica maga Circe – Morion, da, "morion" =sciocco, folle (la M. bianca o maschio).

(6) Il nome Mandragora deriverebbe secondo alcuni da stalla, stabulo, grotta, e da adunanza, cioè che si trova frequente vicino alle stalle: altri sostituiscono ad "agora" il verbo "ageiro" con lo stesso significato; altri ancora propendono per ornamento, onore; privilegio, cioè ornamento delle stalle.

Charles Etienne nel De latinis et graecis nominibus arborum, ecc., pag. 49, (1547) dice: "cette étymologie me parait d’autant plus vraisemblable, que la mandragore est désignée par certains auteurs sous le nome de mandegloire" (N d R).

(7) Se ne facevano infami beveraggi che per le loro proprietà soporifere trasportavano il credulo volgo nelle fantastiche regioni del soprannaturale e nel buio regno di Satana. Ed i santi roghi dell’nquisizione quanti non arsero che, colla debole mente predisposta a cose meravigliose e strane, scambiando le provocate allucinazioni di un sonno morboso per realtà, confessarono poi, sotto la tortura, di aver patteggiato col diavolo e assistito al sabbato delle streghe! (N.d.R.).

(8) Chaumenton, Chamberet e Poiret riferiscono nell’Abrégé de la Flora Médicale (1821) "il faut pareillement une quantité assez considerable de baies pour déterminer des accidents: car le prof. Hernandez (1651) désirant prouver l’innocuité de ce fruit, en mangea une entière devant ses élèves, pendant plusieurs jours de suite, avant de commencer sa leçon, et n’en fut jamais incommodé".

E commentano: "toutefois, cette expèrience ne serait pas sans doute renouvelée impunement par une personne délicate et irritable" (N. d. R.).

(9) Ho inutilmente cercato il nome di Langius nelle diverse Bibliografie Tedesche, finalmente nella Francese Nouvelle Biographie Universelle ho potuto leggere: Langius vedi Lang e Langhe, ora Lang (Carlo Nicola). Fu Medico e Naturalista Svizzero (n. a Lucerna 1670 m. 1741). Studiò lettere a Friburgo, poi venne in Italia e seguì un corso di medicina a Bologna, laureandosi poi a Roma il 1692. Andò quindi a Parigi, a perfezionarsi negli studii medici. Nel 1709 era medico a Lucerna. Fondò un museo di storia naturale.

Sempre nella citata Opera, si legge: Langius nome latino di Charles de Langhe. Filologo belga, nato, secondo alcuni a Gand, secondo altri a Bruxelles. Morto a Liegi il 1573. Si laureò in lettere in Italia. Lasciò una bella biblioteca di manoscritti Greci e Latini. Fu ecclesiastico e fu considerato uomo di grande erudizione. Traduttore di molti classici Greci e Latini (Cicerone, Seneca, Dioscoride e Teofrasto). E’ difficile dire a quale dei due abbia inteso riferirsi il Bodeo Stapel. Con maggior probabilità dovrebbe essere il primo, che ha studiato medicina a Bologna. Più convincente sembra però la notizia portata da Nuovo Dizionario Storico stampato a Bassano nel 1796, il quale dice: Langio Giovanni n. Heidelberg in 1485 m. ivi 1559. Studiò medicina in Italia. La sua Miscellanea Medicinalium Epistolarium, pubblicata (pare dopo la sua morte) nel 1589, è utilissima alla medicina e alla storia naturale. Pare fosse un grande amatore del cado, che ha esaltato anche in versi!

(10) Dudajm, dalla radice dud = amore. La maggior parte dei glossatori e traduttori della Bibbia non crede che il pomo della Mandragora sia velenoso, perché lo considerano il dudaim di Rachele.

Narra la Genesi (30 - 14/15) che Rachele pregò la sorella Lia di cederle alcune Mandragore, trovate da suo figlio Ruben nei campi; al che, rifiutandosi questa, Rachele insisteva promettendole che il proprio marito Giacobbe dormiat tecum hac nocte pro mandragoris fili tui. Ciò fa vedere in che prezzo le teneva, ed insieme ad altri 4 aneddoti biblici, non dà un’idea troppo edificante della purezza e del candore dei costumi di quel tempo.

Giacomo Thomasius in una dissertazione su la Mandragora, stampata nel 1635 e ristampata nel 1669, 1671 e nel 1739, è stato il più tenace assertore della identità dalla Mandragora con il dudaim della Bibbia; ma Antonio Deusing, nel’ De mandragorae pomis ecc. (1659) sostiene che i pomi della Mandragora sono a torto ritenuti il dudaim che, secondo questo Autore, sarebbe invece il piccolo melone della Persia profumato, il Cucumis dudaim L.

Da alcuni si ritiene anche che le Mandragore della Bibbia non siano né i frutti della Mandragora, né i meloni della Persia, ma le arance, dimodo che là dove è detto, nel Cantico dei Cantici (VII), "le Mandragore effondono il loro profumo ed alle nostre porte v’è ogni sorta di frutti squisiti" si dovrebbe intendere, … sull’aria delcoro mascagnano: "gli aranci olezzano!" (N.d.R).

(11) La mandragorina, isolata da Ahrens e ritenuta da Clouzel e Richardson un nuovo alcaloide, è considerata da Wenzel e Thoms come una miscela di josciamina e di scopolamina o come una pseudojosciamina da Hesse.

La josciamina è contenuta in ragione dello 86%: è presente inoltre joscina (10%) e pseudojosciamina (3%). (N. d. R.)

(12) E’ a questo complesso chimico che si riferiscono gli effetti farmacodinamici della Mandragora. Il dottor L. Tercinet, in una sua pubblicazione sulla Mandragora, esamina i pareri di vari autori contemporanei. Dopo avere ricordato l’efficacia della tintura di Mandragora a 1/5, nella cura delle tossi spasmodiche e per calmare la tosse estenuante dei tubercolici, menziona l’azione sedativa che il Leclerc ha ottenuto negli stati spasmodici (singhiozzo, crampi dello stomaco, ulcera gastrica, coliche, tenesmo vescicale e rettale).

Il Tercinet riporta anche le osservazioni del Leclerc relative ad un caso di vomito post-prandium in un malato di aerofagia, nell’enterospasamo in una donna affetta di enterocolite e da dolicocolon e in una dismenorrea consecutiva ad una salpingite di origine gonococcica. Tutti questi casi beneficiarono nettamente, i due primi della tintura presa alla dose di XV gocce dopo ciascuno dei due pasti, il terzo da enteroclismi di 100 gr. di siero fisiologico addizionati di XX gocce della predetta tintura.

Il Tercinet riporta inoltre un curioso caso di impotenza, osservato dal Leclerc, nel quale non a mancanza di desiderio, ma al contrario, ad un eccesso morboso di immaginazione ...l’inconveniente era dovuto.

Un caso cioè simile a quello ricordato dal Montaigne di quel Re che, avendo sposato una bella giovane donna della quale si era pazzamente innamorato, si trovò in forte imbarazzo.... al momento buono e minacciò di ucciderla pensando che il contrattempo fosse dovuto a stregoneria. Il malato osservato dal Leclerc in preda a questa inibizione psichica, avendo sentito parlare della Mandragora come afrodisiaco, si procurò, in una farmacia omeopatica, della tintura madre della quale prese XX gocce in un po’ di vino di Spagna prima di affrontare il proelium Veneris. Questa somministrazione provocò in lui un certo torpore, ma rese normale la funzione coniugale. Ristabilendo cioè l’equilibrio psico-fisiologico, propizio all’adempimento di certe funzioni organiche; la Mandragora ha confermato che la sua reputazione di afrodisiaco non era una fola, come credettero Levino Lemnio (1595), che riteneva la Mandragora poco atta a quest’ufficio, per le sue qualità frigide e soporifere, il Vallisneri (1733) e Olav Celsh (1748). Il Leclerc, inoltre, ha osservato una giovane donna in preda, per un tragico incidente d’automobile, a dei violenti dolori del plesso solare, trarre profitto dall’uso della tintura di Mandragora alla dose quotidiana di XL gocce, a X gocce per volta prima dei pasti.

Se a questi fatti clinici aggiungiamo che la Mandragora come, ha constatato Il Bouquet, dà degli eccellenti risultati nel mal di mare e di aeroplano (nelle dosi, precisa il Leclerc, di XXV gocce di tintura alcolica di radice prima dell’imbarco e, in seguito durante il viaggio, da XV a XX gocce tre volte al giorno) dobbiamo ammettere, come conclude il Tarcinet, che la Mandragora "constitue un donum Dei que les hommes auraient tort de négliger plus longtemps" e auspicare ch’essa ritrovi, nella farmacopea, un buon posto a lato di altre solanacee (belladonna, giusquiamo, stramonio, morella, lycium) come correttrice delle distome neuro-vegetative. Lo meriterebbe. (N. d. R.).

(13) La ....pericolosa erba non poteva neppure essere toccata da alcuno, senza che questi impazzisse. Nel Codice del sec. XIV di Pavia (5 C. 20 b.), del quale abbiamo già parlato in una nota su l’Euphrasia, è raffigurato il cane che strappa la pianta maledetta, mentre l’uomo che sta lì presso si tura le orecchie per non sentire il lacerante grido della radice divelta, che faceva smarrire i sensi a chi l’udiva, ed i furiosi latrati del povero animale morente, vittima innocente ed espiatoria della codarda avidità del padrone. Questa operazione doveva essere compiuta in maggio, nel terzo giorno della luna.

Valeva la pena di sacrificare un cane, se, fra le meravigliose virtù, aveva anche quella di far scoprire i tesori e, miracolo ancor maggiore, messa in una cassetta o in una borsa con delle monete, nello spazio di un giorno le duplicava! (N.d.R.).

(14) A questo proposito, nel predetto codice pavese, si legge: HERBA LUZA MANDRAGORA – Ad sanandum feritas sine unguento. Accipe folia istius herbe et pista. Postea pone super feritas per spatium trium horarum aut quatuor, saldabituir omnis ferita cuiuscumque modi sit. Item si esset aliqua femina qui non posset concipere filios. Accipe de ista herba mandragora et herbam suam da ei comedere, sicut esse radix, cum sale et subito quando comederit utatur viro suo per tres vices et in mane erit gravida per virtutem istius herbe. Et coligitur de mense maii, die tertia lune …..

(qui è una di quelle .... feroci raschiature delle quali abbiamo dato notizia nell’articolo sulla Euphrasia, part. I - Fitoterapia n. 4/53, nota a pag. 436).

Il resto – a dispetto del censore – lo possiamo leggere in una volgarizzazione, contenuta nel Codice erbario conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia, studiato nel 1904 da Ettore de Toni, che dice: "Erba mandragora jova a far saldare una piaga senza unguento. Toli la foia da questa erba e pistala e mitila sopra le ferite di qualoncha rasone. Se li femine che non potest inzenerare fioli. Toia la barba de questa mandragora e manzala cume fuse radice cum lo sale e incontinente cum la a manzata vada a zazere como lo marito tre volte, trovarase la mattina graveda pel vertute de dio e de questa erba. Volse colera de mazo a tri di de la luna ….. (fin qui è la traduzione letterale del testo del codice pavese, con la variante che il glossatore ha tradotto et herbam suam da ei comedere in toia la barba et manzala ecc. e, ad ogni buon conto ha aggiunto: pel vertute de dio e.... non solo dell’erba) …. e volese fare cavare o ad altro modo guarda quando tu la scalze cum la zapa guarda che non la tocasse e quando tu gai le mane el pedi non avere paura e non te volzere in altra parte ma subito picha lo cane e sta molto luntano siche tu non aoldi lo rumore de la tempesta che ne vene cum legarole siche subito morisse".

(15) Il Mattioli afferma di aver egli stesso parlato a Roma con uno dl tali ciarlatani e di aver visto le figure che si vendevano per 25 ducati e più.

(16) IL Leclerc scrive: "è alla forma della radice, nella quale i nostri antenati vedevano una personificazione dell’homunculus caro agi occultisti, che la pianta deve la sua reputazione di magica e la parte che le fu data nelle opere di negromanzia. Mattioli e Giacomo Crevin ci riferiscono come i ciarlatani usufruivano dell’antropomorfismo fabbricando con qualsiasi radice ingegnosamente camuffate le Mandegloires "fatte con la forma del corpo della persona" che erano vendute molto care per far avere figli alle donne sterili, ed alle quali i ciarlatani non solo attribuivano le facoltà di essere vivi, ma anche la grande potenza di procurare a coloro che le possedevano immense ricchezze e di difenderli da ogni calamità.

"Non sorprende quindi che un casi misterioso vegetale sia passato nell’arte di guarire; per un rimedio ai. mali più diversi... La Mandragora era ritenuta, da un’epoca che si perde nella notte dei tempi, come una droga nello stesso tempo afrodisiaco e anestetizzante. E’ la seconda di queste virtù che nel corso dei secoli è stata messa a profitto dai medici greci e romani che, seguendo i dettami di Ippocrate, di Celso e di Paolo d’Egina, adoperavano le preparazioni della Mandragora per attutire il dolore e provocare il sonno.

Essa fu, nel Medio Evo, l’antenato degli anestetici usati in chirurgia. Teodorico, monaco domenicano e vescovo di Cervia, in un capitolo della sua Cyrurgia, indica una miscela soporifera, secondo la formula di Hugues de Lucques, nella composizione della quale entrava il succo delle foglie di Mandragora. Con questa miscela si inzuppava una spugna e veniva applicata alle narici del paziente che doveva subire l’operazione fin tanto che non si fosse addormentato: lo si risvegliava in seguito facendogli respirare dell’aceto. Arnaldo di Villanova utilizzava, allo stesso scopo, una sorta di pomo soporifero fabbricato con foglie e scorza di Mandragora, succo di papavero e farina di orzo. Altri autori preferivano far assorbire un enolito che, a dire d’un religioso di Fontevrault, faceva saporitamente dormire, coloro ai quali bisognava tagliare o amputare un membro.

Sul potere anestetico della Mandragora riferisce anche il Boccaccio nella decima novella della quarta giornata del Decamerone, là dove parla di un grandissimo Medico di cirugìa, il cui nome (immaginario) fu Maestro della Montagna, che il Manzi, il De Renzi ed il Torraca identificano con Matteo Silvatico.

Questi processi primitivi di narcosi – continua il Leclerc – furono in seguito abbandonati, da alcuni per la loro tossicità: da altri, perché riconosciuti inefficaci. Ciò nonostante, nel 1847, Dauriol ricorse dl nuovo alle spugne sonnifere, che fabbricava lui, stesso. Secondo osservazioni di questo autore, la Mandragora può provocare un sonno profondo con l’abolizione completa della sensibilità. Pur mostrandosi scettici nei riguardi del valore della Mandragora come anestetico, si deve riconoscere che essa deve ai principi attivi che contiene una innegabile azione inibitrice di tutto il sistema neurovegetativo che si, esercita prevalentemente e in modo elettivo sul pneumogastrico (N. d. R.).

OPERE CONSULTATE

CAMERS - Index Plinianus - Venezia, 1526, Venezia, 1568.

MATTIOLI P. - Discorsi sui libri di Dioscoride - Venezia. 1557.

DODONEO R. - Stirpium Historia - Anversa, 1616.

BODEO-STAPEL - Theophrasii Eresii Hist. Plant. - Amsterdam. 1644.

CASTORE DURANTE - Herbario Novo – Venezia, 1718.

LEMERY - Trattato Universale delle droghe semplici - Venezia, 1698.

MORANDI - Hist. Botan. Practica – Milano, 1766.

Nuovo Dizionario Storico, - Bassano, 1796.

SANGIORGIO - Storia delle piante medicate – Milano, 1809.

LOUDON - Encyclop. of Plants – Londra, 1841.

DUCHESNE - Répértoire des plantes utiles et vénéneuses – Bruxelles, 1846.

TARGIONI-TOZZETTI - Corso di botanica medica e farm. - Firenze, 1847.

WEBSTER – Diction of Engltsh Language - 1891

 

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